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In 
  paese tutti ormai sapevano della sparizione della nipote di don Gaspare. Ma 
  anche nelle zone vicine si conosceva la notizia perché stampa e radio 
  locali l’avevano ripetutamente comunicata invitando la popolazione a collaborare 
  nelle ricerche; a raccontare ogni minimo particolare interessante, ogni sospetto 
  o ipotesi.
  S’era 
  stampato un manifesto a colori con la foto di Fortuna, ed era stato affisso 
  dappertutto. Anche nelle città distanti centinaia di chilometri.
  Si era anche 
  diffusa una certa psicosi, con dicerie su immaginarie tratte di bianche, o su 
  rapimenti da parte di slavi con intenzioni di avviare giovani ingenue alla prostituzione. 
  Alle ragazze fu proibito di uscire di sera e di parlare con stranieri.
  A casa di 
  Fortuna però, si avevano forti dubbi sull’ipotesi del rapimento. 
  Ed era Rachele a nutrirli, mentre Gaspare, al minimo accenno all’argomento, 
  la zittiva. Lui preferiva credere che la nipote non avrebbe mai volontariamente 
  lasciato la casa in cui era amata, vezzeggiata, accudita. Come accettare che 
  se ne fosse andata lasciandolo di proposito in quell’angoscia? Che le 
  aveva fatto per meritare tale punizione?
  Rachele invece, 
  donna pratica e intuitiva, aveva da tempo sospettato che qualcosa tormentasse 
  la bimba. Dopo aver trascorso molte notti a piangere, s’era ricordata 
  di un particolare oggetto, un plaid di lana fatto ai ferri da lei per la ragazza. 
  Lo cercò con impegno, andando a guardare in ogni scaffale, in ogni cassetto. 
  Persino in cantina dove invece aveva trovato un salvadanaio rotto e senza più 
  i risparmi che conteneva. Erano novecentomila lire in banconote di diverso taglio. 
  Questo particolare confortò la donna, perché allontanava l’ipotesi 
  del rapimento, portandola a credere che si trattasse invece di una fuga volontaria, 
  magari con un innamorato, o qualche amica in cerca di avventure. Un colpo di 
  testa, una ragazzata... Era questa la versione che preferiva, e attendeva un 
  giorno o l’altro di vedere la ragazza tornare a casa. S’inginocchiò 
  assorta davanti al quadro della Madonna.
  “Che 
  fai, preghi?”
  La voce di 
  don Gaspare la distolse dai suoi pensieri. S’alzò e disse:
  “Ho 
  scoperto una cosa, anzi due...”
  “Che 
  cosa?”
  “La 
  coperta di lana, quella azzurra a fiori bianchi che avevo fatto ai ferri..”
  “Ebbè?”
  “Non 
  c’è. Non l’ho trovata da nessuna parte. Ho cercato anche 
  in cantina e, sapete che cosa ho visto?”
  “Su, 
  parla, che hai visto?”
  “Il 
  salvadanaio, quello grande, di coccio, rotto e senza soldi”.
  “Ne 
  sei sicura?”
  “Eccome! 
  Sta di là in cucina... Lo potete vedere pure voi”.
  Don Gaspare seguì 
  la donna che gli mostrò i frammenti di terracotta e disse: “Questo 
  è un segno che la bimba ha preso i soldi per scappare”.
  “Zitta! 
  Non fare pettegolezzi !.. Vuoi mettere mia nipote in bocca a tutto il paese?”
  “Io?...Ma 
  se io ho a cuore solo il suo bene!”
  “Allora 
  taci. Non mettere il carro davanti ai buoi! Che vuoi dire aver trovato il salvadanaio 
  rotto? Può essere che abbia preso i soldi per comprarsi un oggetto... 
  chessò... un vestito!.. o peggio, che li abbia prestati a qualcuno!”.
  “E 
  il plaid?”
  “Cercalo 
  meglio. Vedi nei bauli, negli armadi... Non hai insistito perché le comperassi 
  il corredo?.. Cerca in mezzo a tutta quella biancheria. Ne avrai per giorni... 
  Se anche non lo trovi, però, non venirmi più a raccontare ‘ste 
  fesserie. Come se una ragazza che fugge pensasse a portarsi dietro una coperta. 
  A che pro?...”
  “Va 
  bene, va bene. Vi devo dire però che l’amica di Fortuna, quella 
  Clelia, ha detto che domani ci viene a trovare”.
  “E 
  quando?”
  “All’uscita 
  dal lavoro, verso le cinque. Vuole raccontarci degli ultimi giorni che è 
  uscita con Fortuna e del fatto che vostra nipote non stava bene, non sembrava 
  interessarsi a niente”.
  “Ma 
  quando te le ha dette queste cose?”
  “Stamattina, 
  al telefono. Mi ha pure detto che la bimba doveva avere, secondo lei, qualche 
  dispiacere, una preoccupazione che però non confidava”.
  “Doveva 
  avere, non doveva avere!” esplose don Gaspare. “Ma di preciso, di 
  sicuro... che cosa sa questa Clelia?”
  “Non 
  lo sa spiegare... Si tratta di sensazioni...”
  “Insomma.., 
  noi con le sue sensazioni abbiamo la speranza di trovarla?”
  “No, 
  ma si sente una campana, poi un’altra, poi si ragiona sulle idee...”
  “Io 
  non ci voglio parlare con questa Clelia. Parlaci tu. Fatti dire quello che sa, 
  se qualcosa sa... Delle sue ‘sensazioni’ io non so che farmene”.
  Don Gaspare 
  uscì. Si sentiva irritato come ogni volta che udiva pareri non richiesti 
  di conoscenti del paese. Andò ancora dai carabinieri sperando di sentire 
  da loro informazioni confortanti su come procedevano le indagini. Poi, senza 
  nessuna buona novità, fece un breve giro in piazza, salutò un 
  paio di compaesani e con molta tristezza si diresse verso casa.
  Il mattino 
  dopo accese la radio come faceva ormai spesso sperando di avere notizie dai 
  programmi locali, e ascoltò con interesse alcune interviste che si stavano 
  mandando in onda. Prime fra tutte furono trasmesse le dichiarazioni di Clelia, 
  l’amica di sua nipote, che aveva detto le stesse cose raccontate a Rachele. 
  Poi fu chiamato in causa il parroco del paese che lodò la serietà 
  di Fortuna Fasano, enumerò le sue virtù e la sua dedizione allo 
  studio. Infine furono intervistate due persone, due amici minorenni, che partecipavano 
  alla trasmissione tramite il telefono, e dissero di aver visto la ragazza, il 
  giorno della sparizione, in macchina con un uomo e una donna di colore. I due, 
  intenzionati a restare nell’anonimato, rifiutarono di dire altro. Assicurarono 
  però che la persona vista era proprio Fortuna. Ne erano certi poiché 
  la conoscevano. Avevano anche notato lo stesso vestito azzurro che aveva indosso 
  mentre poco prima passeggiava con lo zio vicino alla chiesa.
.
  08) Ostia Antica 30 settembre. 
Pinoli, 
  cardi, more, funghi, e liofilizzati di carne e di frutta. Questi erano gli alimenti 
  che le assicuravano la sopravvivenza. Già dai primi progetti di fuga 
  lei aveva contato sulla propria capacità di calcolare un giusto apporto 
  nutritivo per il suo organismo. Aveva un tetto. Aveva le scorte, e un bosco 
  intero dove cercare e raccogliere ciò che le serviva. Nessun timore la 
  sfiorava se non quello legato al futuro ormai prossimo. L’incognita dell’evento 
  che doveva vivere, quello sì la preoccupava.
  La natura 
  che aveva intorno era completamente leggibile e vivendoci a contatto Fortuna 
  si sentiva bene, a proprio agio, serena. Era l’altra natura, quella sconosciuta, 
  quella oltraggiata dall’uomo, ciò che le incuteva paura. Ignorava 
  i principi secondo i quali quella natura snaturata poteva agire. Sapeva che, 
  priva di leggi, essa reagiva alle manipolazioni dell’uomo in modo imprevedibile: 
  senza né codici, né regole, né cultura. Da ignorante. Come 
  è incolto chi prima stravolge un delicato equilibrio e poi si meraviglia 
  dei risultati negativi. O li nega. Si benda gli occhi per vedere e nega. Infila 
  la testa sottoterra per annullare il pericolo. Rimane incollato con la testa 
  Vi sotto prima ancora di essersi accorto della valanga che lo sommergerà 
  per sempre.
  Fortuna desiderò 
  che il tempo che mancava per arrivare al giorno della verità trascorresse 
  in un lampo. Poi si pentì. Cercò di pensare a cose passate. Il 
  futuro la spaventava e non voleva saperne. Sedette sulla coperta con le gambe 
  incrociate e si dondolò ripensando ad una nenia che le cantava sua madre 
  da piccola per farla addormentare.
“Dormi 
  dormi questa sera, non c’è vento né bufera, 
  dormi dormi bimba 
  bella, guarda in cielo c’è una stella. 
  Serve al babbo per 
  tornare, e alle barche in mezzo al mare, 
  e se il sonno viene 
  giù la stellina non c’è più”.
Dondolandosi 
  al ritmo di quel canto si addormentò sognando di essere a casa, nella 
  sua abitazione di Ciaccolo, con sua madre intenta a sfaccendare cantando. Era 
  allegra mentre la mattina le preparava la merenda per la scuola. E prima di 
  farla uscire la pettinava a lungo con cura. Le annodava i capelli in grosse 
  trecce e l’accarezzava con le mani leggere che emanavano un odore grato, 
  come quello del pane appena sfornato. L’odore, il profumo di quelle mani 
  l’avrebbe accompagnata per tutta la vita. Era una sensazione che la portava 
  a pensare che nulla finiva davvero. Avvertire quell’odore come se sua 
  madre fossi lì presente era un conforto per la sua anima e i suoi sensi. 
  Era come ritrovare un angolo che apparteneva solo a lei in una dimensione fuori 
  dal tempo. Spesso faceva quel sogno e al risveglio avvertiva ancora per lungo 
  tempo quel profumo.
  All’alba Fortuna 
  si alzò e uscì. S’inoltrò cauta in quella pane di 
  bosco non visibile dalla strada e raccolse ogni cosa utile ad alimentarsi. Pochi 
  avrebbero immaginato che in un posto così, a pochi passi dalla città, 
  esistesse una insospettabile miniera di prodotti vegetali. Fortuna se ne avvantaggiava 
  in quella luce ancora grigia del primissimo mattino. Colmava la sua ampia gonna, 
  alzando il lembo davanti, con crescione, o con dente di leone che mangiava crudi 
  per sfruttare al massimo i sali di potassio e le vitamine che contenevano. Lavava 
  le foglie in una fontana ancora funzionante al piano terra della fabbrica e 
  poi saliva nelle sue stanze. Aveva con sé anche una popote da campeggio 
  nella quale cuoceva ciò che era impossibile mangiare crudo. L’ortica, 
  per esempio, era da lei consumata a volontà una volta cotta e condita 
  con succo di mandarino acerbo.
  Quasi ogni 
  giorno accendeva un po’ di legna secca, nella parte posteriore dell’edificio 
  e si preparava il pasto: cardo, rucola, asparago, borragine. Spesso mescolava 
  tutto insieme a un liofilizzato di carne che aggiungeva sapore e sostanza ai 
  vegetali. E come frutta non mancavano i rovi pieni di more dolcissime, ricche 
  di zuccheri, sali di calcio, potassio e vitamine. Oppure i corbezzoli dal sapore 
  agrodolce, o i mandarini di cui beveva il succo. Di mandarini ce n’erano 
  in abbondanza. Erano della qualità giapponese e pendevano da due generosi 
  alberi che qualcuno molti anni prima aveva piantato accanto all’ingresso 
  laterale della fabbrica, quello abitualmente usato da lei per entrare e uscire. 
  Era un ingresso formato da un portale ad arco oltre al quale c’era una 
  sala luminosa con i pavimenti di marmo. In fondo poi una parete apriva altri 
  due archi con due porte più piccole che introducevano in due ambienti. 
  A destra due ampie finestre, da cui entrava la luce, interrompevano la facciata 
  dell’edificio. A sinistra, una scalinata in marmo compiva una curva in 
  salita che portava al piano superiore, dove altre porte davano su altri locali 
  separati. La zona notte di Fortuna stava a sinistra e lì c’era 
  la stanza rossa con le scritte in francese.
  Era andata avanti 
  nella sua traduzione notturna ed aveva memorizzato altre parole:
“ENFIN JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT ET IL ÉTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE. ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE... ”
(Finalmente, dopo mezzogiorno, il sole s‘eclissa tra i primi alberi del “boschetto” e lo spigolo dell‘edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione dell’edificio, che enorme, non riesce però a invadere la calma architettura della flora qui esistente… )
 Non 
  capiva ancora il senso di quelle frasi e cercava di conquistarlo poco per volta. 
  Di tempo ne aveva. Avrebbe trascorso ancora molte notti in quel luogo, in quell’isola 
  di pace trovata per caso e in cui nessuno andava a importunarla.
  Il giorno della 
  sua fuga non avrebbe immaginato di poter trovare un così comodo e sicuro 
  alloggio. Quel giorno, prima di uscire con lo zio, preparò una sacca 
  da viaggio infilandovi la coperta di lana, qualche indumento, oltre a un accendino, 
  la popote, il pettine, l’ago, il filo e tre libri. Pensò che con 
  i soldi presi dal salvadanaio, una volta arrivata a Roma, avrebbe comprato un 
  sacco a pelo, dello zucchero, del sale, e novanta bustine di liofilizzati di 
  carne e frutta. La sacca, nascosta nello sgabuzzino degli attrezzi da giardino, 
  fu da lei recuperata quando, uscita di chiesa, corse a casa per prenderla.
  Proseguì 
  quindi a piedi fino alla strada provinciale, distante un chilometro e mezzo 
  da casa sua. Nessuno l’aveva notata. La gente era tutta in paese per la 
  sagra. Fece l’autostop e fu accolta da una coppia di colore che le diede 
  un passaggio fino a Latina. Da lì prese il treno per Roma e da Termini 
  salì sul trenino locale che portava ad Ostia Antica. Aveva inseguito 
  già dalla stazione di Roma, una comitiva di turisti inglesi diretti agli 
  scavi. Poteva essere confusa col gruppo e quindi non dare nell’occhio. 
  Così quando li vide scendere scese tra loro. Chiunque l’avesse 
  osservata con quei capelli rossicci, la carnagione lattea macchiata di efelidi, 
  la sacca di juta sulle spalle, l’avrebbe creduta una turista tra i turisti.
  Entrò 
  con gli inglesi fino dentro la zona degli scavi e camminò accodandosi 
  alla comitiva. Ascoltò con attenzione le spiegazioni che la guida diede 
  sulla nascita dell’antico porto di Roma.
  Apprese che 
  l’imperatore Tiberio aveva iniziato i lavori per l’apertura di un 
  canale deviato dalle sponde del Tevere a nord di Ostia. Claudio poi, nel 42 
  d. C. l’aveva completato iniziando la costruzione del porto, che era stato 
  terminato da Nerone e ampliato da Traiano da cui prese il nome, tra il 100 e 
  il 105 d. C.
  “Questa è 
  la Piazza del Foro”, disse la guida ponendosi al centro dei visitatori 
  inglesi, “che misura duemila metri quadrati, ed è limitata da due 
  templi: il Capitolium e il Tempio di Roma e di Augusto con la Statua di Roma 
  dominatrice. Alle spalle del Capitolium vediamo gli edifici commerciali, con 
  magazzini e botteghe, che continuano fino alla banchina del Tevere. Qui a destra 
  ci sono i forni, il mulino, le macine, le giare interrate per mantenere fresca 
  la merce... Mettetevi in fila”, disse poi interrompendosi per meglio organizzare 
  il gruppo, “perché... se avanziamo nella strada un po’ sconnessa 
  da sampietrini in dislivello, possiamo notare i solchi dei carri che proseguono 
  segnando le pietre in linee parallele. E andando ancora avanti troviamo una 
  serie di case, tra cui la bellissima Casa di Diana, che era poi un albergo, 
  costruito a più piani, con balconi, e il Thermopòlium, paragonabile 
  a una moderna trattoria con bancone e sedili per i clienti, dove si servivano 
  uova sode, fagioli, e ben ottanta vini diversi da condire con miele e spezie”.
  I visitatori, proseguirono 
  ammirando la funzionalità dell’antico porto di Roma, che descritto 
  dalla guida, pur in un luogo che ancora nascondeva parte delle strutture antiche, 
  dava comunque l’idea del brulicare di persone tra merci, oggetti e animali 
  che in quell’epoca vi agivano.
  Più 
  avanti, superato il bellissimo Teatro romano, erano andati oltre le Terme, a 
  vedere la Sinagoga più antica esistente in Europa; del primo secolo dopo 
  Cristo, con quattro colonne, un portico, la zona per la preparazione del pane 
  azzimo e i simboli ebraici sui mosaici.
  La Sinagoga 
  era stata costruita lontano dalla zona centrale e confinava con la doppia corsia 
  dell’autostrada per Fiumicino, vicino ad una curva. Posto dal quale Fortuna, 
  guardando oltre la strada, s’accorse del boschetto dietro il quale un 
  grande edificio semicoperto dai pini attirò la sua attenzione. Pensò 
  di andarci, e attese di poterlo fare senza essere vista. Restò col gruppo 
  a camminare tra gli scavi, tornando indietro nel percorso che avevano già 
  fatto. Nella zona dei templi dedicati a Venere, Cerere Speranza e Fortuna, udì 
  pronunciare il suo nome dalla guida e pensò che forse quell’omonimia 
  era un segno del destino. Si staccò perciò dagli altri ed entrò 
  in uno dei templi rimasti ancora quasi intatti, quello cioè dedicato 
  alle sfere planetarie. Lì resto fino a che venne buio.
  Uscì 
  da quel nascondiglio quando, ormai di notte, nessuno più sarebbe passato 
  nelle vicinanze. Si diresse dalle parti della sinagoga. Scavalcò la recinzione 
  degli scavi, attraversò le due corsie dell’autostrada e fu dentro 
  il boschetto. Poi proseguì per il grande edificio che stava immerso tra 
  i pini.
  La fabbrica 
  l’accolse come una casa incantata che sembrava parte della natura. Quella 
  che lei amava e conosceva: i boschi di eucalipti, i pini, il pitosforo assiepato 
  sotto gli alberi alti. Nessun male poteva derivarle da quella natura intatta, 
  dall’aria pura e balsamica per l’odore di resina. Nessuno ancora 
  aveva stravolto le leggi del bosco. Se lei fosse nata lì e avesse sempre 
  abitato quei luoghi, nulla di male le sarebbe accaduto.
  S’inoltrò 
  all’interno dell’edificio, salì su per la scala di marmo 
  e scelse subito la stanza rossa. Si sdraiò sul suo sacco a pelo e s’addormentò 
  sentendosi finalmente al sicuro.
Il titolo a grandi caratteri era sulla prima pagina del quotidiano locale e diceva esattamente:
“Trovato il probabile rapitore di Fortuna Fasano, è un nigeriano di venticinque anni”.
L’articolo poi proseguiva chiarendo i particolari di quell’arresto:
“Ieri, i carabinieri di Latina, hanno trattenuto in stato di fermo Lamin Moundou, un immigrato della Nigeria. Forti sospetti incombono su di lui. Pare che la sera della scomparsa due testimoni abbiano visto la ragazza in sua compagnia in macchina. Gli investigatori sono risaliti all’uomo di colore in base al numero di targa della sua automobile. Una perquisizione improvvisa nell‘abitazione del sospettato ha dato, secondo quanto affermano gli inquirenti, esito positivo. Oggi stesso Lamin sarà interrogato dal magistrato “.
Il 
  bar della piazza era pieno di gente. La lettura del giornale avveniva pubblicamente. 
  I ciaccolesi si sentivano molto coinvolti da quella sparizione. Commenti, ipotesi, 
  propositi di vendetta e storie di maniaci del passato, intrattenevano gli avventori 
  del locale. Qualcuno prospettò l’ipotesi che la ragazza fosse stata 
  uccisa e poi buttata nel Garigliano. Altri si dissero certi che era ancora viva, 
  magari venduta ad uno sceicco o indotta a prostituirsi in qualche paese straniero.
  Il giorno 
  dopo ulteriori ragguagli sulla vicenda venivano dalle pagine del quotidiano:
“E’ 
  un braccialetto l’oggetto trovato in casa di Lamin Moundou. Sempre più 
  compromesso il giovane di colore”.
  “Gli 
  investigatori, dopo un confronto con i parenti della ragazza scomparsa la notte 
  della sagra, hanno accertato che il braccialetto era quello della loro nipote. 
  L’oggetto è stato riconosciuto anche dall’orefice del paese, 
  che a suo tempo vi aveva inciso le iniziali di Fortuna Fasano.”
 
  Gaspare e la sua domestica, dopo il riconoscimento, congedati dai carabinieri 
  del paese, erano tornati a casa dove frotte di giornalisti li avevano intervistati, 
  scattando fotografie e chiedendo nuovi particolari sulla vicenda. Don Gaspare 
  ad un certo punto s’era inquietato ed aveva scacciato tutti in malo modo. 
  Rachele nel frattempo era andata nella sua stanza.
  “Che 
  hai, stai poco bene?” chiese Gaspare.
  “Sono 
  confusa. Non so più che pensieri fare riguardo alla povera bimba”.
  “Che 
  fai, piangi adesso?”
  “Scusate”, 
  disse la donna, “non posso credere che le abbiano fatto del male!”.
  “Spero 
  che quel Lamin non menta... Nega ogni accusa. Dio voglia che abbia ragione”.
  “E 
  il braccialetto, come se lo trovava in casa?”
  “Secondo 
  lui, s’è sganciato mentre lei era in macchina. La chiusura è 
  infatti difettosa...”
  “Ma 
  la bimba...” chiese Rachele fermandosi un attimo per soffiarsi il naso, 
  “La bimba avrebbe avuto il coraggio di salire nella macchina di un forestiero?”
  “Credo 
  di no”, rispose Gaspare, “ma a questo punto sono senza orientamento 
  pure io. Dalle testimonianze dei due ragazzi che hanno visto per ultimi Fortuna, 
  l’uomo non era solo in macchina. E anche lui dice che insieme c’era 
  una certa Helen, la sua fidanzata”.
  “E 
  dov’è questa donna? Perché non viene a testimoniare?”
  Lui dice 
  che è partita per la Nigeria e si trova presso la sua famiglia d’origine”.
  “Mamma 
  santissima, che storia ingarbugliata!…Voi ci credete?”
  “Voglio 
  credere!… La storia che quell’uomo racconta mi illude sul fatto 
  che mia nipote sia viva. Anche se non riesco a comprendere perché sia 
  andata via. Noi la trattavamo bene...Tu le davi affetto e attenzioni. Io ho 
  fatto il possibile per essere per lei un padre... Perché doveva scappare?”
  “Ci 
  dev'essere un motivo!”, disse Rachele prendendo coraggio per affrontare 
  un argomento irritante per il suo principale. “Anche se a voi non piace 
  sentire certi discorsi, io non posso dimenticare che la bimba era pallida, magra, 
  e... non era più la stessa... Pure la sua amica lo ha detto”.
  “Ancora 
  continui con questa faccenda!”
  “Non 
  vi spazientite, non voglio dire niente di male!.. Solo che forse era stanca, 
  forse ammalata...”
  “Adesso 
  ci manca anche che ci fissiamo con le malattie!.. Ecchè!... una persona 
  che sa di essere ammalata che fa, scappa?”.
  Rachele, umiliata 
  per i rimproveri riprese a piangere accorata. Don Gaspare mandò la domestica 
  a riposare e si ritirò in camera sua per sdraiarsi a pensare. Erano vacillate 
  le sue certezze sul fatto che la nipote fosse stata rapita. Il ritrovamento 
  del braccialetto presentava degli interrogativi che potevano avere solo due 
  risposte. Se il nigeriano l’aveva davvero trovato in macchina Fortuna 
  poteva essere ancora viva. In caso contrario l’avevano uccisa prima di 
  derubarla. Allora, piuttosto che pensarla morta, lo zio sceglieva la prima versione, 
  quella della fuga. E il fatto che l’uomo conservasse tranquillamente il 
  braccialetto in casa sua invece di disfarsene, lo induceva a essere ottimista.
.
  10) 
  Ostia Antica 30 settembre.
Dai 
  giornali e le radio locali, le notizie erano rimbalzate sui quotidiani nazionali. 
  Il vecchio Zola stava seduto sulla sedia a dondolo di vimini davanti al portico 
  di casa. Era quella una consuetudine dei giorni di festa, dopo il pranzo particolarmente 
  elaborato che sua figlia preparava la domenica. Dondolandosi piano si mise a 
  leggere il Messaggero e trasalì nel vedere la fotografia di Fortuna in 
  prima pagina. Lesse in fretta il resoconto delle notizie di cronaca e restò 
  poi a lungo a dondolarsi con gli occhi chiusi.
  I nipoti, 
  credendolo addormentato non lo disturbarono, e silenziosi giocarono a biglie 
  sul prato tagliato di fresco.
  Anna, sua figlia, 
  uscì con una tazzina di caffè da dargli.
  Lo vide assopito 
  e si fermò sulla porta. Tornò allora dentro per sistemare la cucina. 
  Lavò i piatti e guardò un film alla televisione, presto raggiunta 
  dai bambini. Fra “La città dei ragazzi”, un vecchio film 
  americano con Spencer Tracy.
  Fuori nel 
  silenzio totale un leggero venticello muoveva i rampicanti che ombreggiavano 
  il portico. Scompigliava anche un po’ i capelli bianchi del vecchio, che 
  li portava lunghi sulla nuca e pettinati all’indietro sulla fronte alta. 
  Essi contrastavano. così chiari, col colore di cuoio della sua pelle 
  e gli davano un aspetto bello e sano. La bellezza della vita all’aperto. 
  L’armonia della serenità di chi è in pace con se stesso.
  Zola però 
  non dormiva. Stava assorto nei suoi pensieri e il volto della ragazza dai capelli 
  rossi gli si era impresso nella mente. Ripensava al giorno che l’aveva 
  vista intorno alla fabbrica durante le primissime ore del mattino. Era il primo 
  di giorno di scuola dei suoi nipoti e lui era uscito in anticipo sull’orario 
  consueto. Chi poteva essere quella ragazza che andava in giro a quell’ora 
  e in quei luoghi? L’aveva vista poi introdursi nell’edificio. Cauta 
  aveva guardato dietro di sé ed era entrata.
  “Vive 
  qui?” si era chiesto Zola. “E con chi?”
  Non si era 
  avvicinato alla ex Breda per la sua natura discreta.
  Non capiva 
  il motivo per cui qualcuno poteva aver deciso di vivere in una fabbrica abbandonata; 
  però immaginò che colei o coloro che lì si erano rifugiati 
  non avrebbero gradito una sua intrusione. “Affari loro!” cercò 
  di pensare per scrollandoseli dalla mente. Sin dall’inizio si era convinto 
  infatti che la cosa non lo riguardava.
  Ora però 
  la faccenda assumeva un aspetto completamente diverso. Un uomo era rinchiuso 
  in carcere accusato di aver rapito e forse ucciso una donna scomparsa da più 
  di un mese. La stessa donna era invece viva, abitava in una vecchia fabbrica, 
  lui l’aveva vista e, da persona civile, non poteva ignorano. Pensò 
  che doveva saperne di più. Per forza doveva immischiarsi, almeno per 
  capire che cosa stava succedendo all’interno di quell’edificio tra 
  i pini.
  La stessa 
  sera sua figlia uscì col marito per andare a cena a casa di amici. I 
  bambini restarono col nonno che gli raccontò, come spesso faceva, magnifiche 
  storie di personaggi inventati:
  “Carlo 
  il bassotto”. “Rudy pie’ veloce”, “Trottola”, 
  “Michelino testa pazza”. I nipoti scelsero di ascoltare “Trottola” 
  e lui iniziò a parlare con la sua voce quieta e rassicurante:
  “Trottola 
  era un barbone che chiedeva l’elemosina in piazza del Duomo a Milano. 
  Non si sapeva la sua età. Era completamente senza capelli e senza peluria 
  sul volto pieno di rughe. A chi glielo domandava l’uomo rispondeva: “Ho 
  centodue anni e sono più forte dite!” mostrando con orgoglio i 
  bicipiti gonfi.
  Ogni sera 
  Trottola andava a dormire dentro un vagone ferroviario in un binario morto della 
  stazione. Di giorno chiedeva l’elemosina ai viaggiatori frettolosi che 
  passavano con le valigie, e a mezzogiorno si metteva in fila per prendere un 
  piatto di minestra dalle suore della Misericordia.
  Di pomeriggio 
  era invece sempre presente in piazza del Duomo dove incontrava altri barboni 
  o parlava con la gente di passaggio. Oppure lì davanti a tutti faceva 
  una strana ginnastica con degli esercizi che lo impegnavano a girare su se stesso, 
  poggiandosi su un piede solo come una trottola. La gente gli si ammucchiava 
  intorno ad osservare. Gli altri barboni l’applaudivano e lui s’inchinava 
  per ringraziare felice.
  La sua misera 
  vita era ogni giorno scandita dalle stesse azioni. Gli stessi luoghi lo vedevano 
  elemosinare una moneta o una sigaretta. Però il ventisette febbraio, 
  giorno del suo compleanno, invitava tutti i barboni a pranzare nel miglior ristorante 
  della città. Ma non solo i barboni di Milano.., veniva gente da ogni 
  parte d’Italia! Per la ricorrenza ognuno già sapeva del banchetto 
  a base di tartufi e champagne che gli sarebbe stato offerto da Trottola. Centinaia 
  di persone giungevano da ogni dove, come per un convegno importante, e seduti 
  a tavola brindavano alla salute del loro ospite.
  Un giorno, proprio 
  durante uno di questi festeggiamenti, Trottola morì. I suoi compagni 
  tentando di rianimarlo si accorsero che aveva nella tasca della vecchia camicia 
  un foglio con l’indirizzo di un notaio. “Quando morirò telefonate 
  a questo numero“, c’era scritto. I barboni seppero così che 
  Trottola era ricchissimo, addirittura miliardario. E quello che di più 
  stupì la gente era il fatto che il vecchio barbone aveva ben quindici 
  case: a Milano, a Como, a Lambrate e a Vigevano. Alcune le aveva affittate, 
  altre le teneva completamente vuote e non si capiva come mai il vecchio andasse 
  a dormire sui treni fermi alla stazione. 
  La notizia del barbone 
  miliardario si seppe in tutta Milano e anche la disposizione testamentaria lasciata 
  da Trottola. Egli destinò gran parte dei suoi averi ai Martinitt, cioè 
  ai bambini poveri del collegio, poi lasciò scritto che si accantonasse 
  il denaro per offrire per molti anni il pranzo ai suoi amici barboni ogni giorno 
  ventisette del mese di febbraio.
  Così 
  il banchetto si ripete da molto tempo e i barboni lasciano, a capotavola, il 
  posto apparecchiato per Trottola. E c’è chi dice che, al taglio 
  della torta, egli appare per un attimo, alla luce delle candeline.
  Il ristorante 
  che ospita i barboni a banchettare, attualmente ha cambiato nome e si chiama 
  “Trottola il centenario”.
  Marco e Valeria 
  seguirono il racconto del nonno sforzandosi di non addormentarsi. Nei loro occhi 
  e quando si infilarono il pigiama per andare a letto nella loro immaginazione 
  si rifletteva ancora la luce delle candeline di Trottola.
Fortuna 
  scansò la felce con un ramo d’albero che usava per frugare sotto 
  i cespugli. Era in cerca di funghi. La stagione calda e la pioggia degli ultimi 
  giorni lasciavano prevedere che ne avrebbe raccolti un bel po’.
  Scartò 
  una clavaria aurea perché non più fresca e prese più avanti 
  due giganteschi esemplari di lepiota procera e qualche boletus granulatus.
  Era di ottimo 
  umore, contenta di aver trovato i funghi di buona qualità che conosceva 
  bene dato il corso di studi che aveva compiuto e l’esperienza sul campo 
  che le avevano fatto fare in cerca di erbe e quant’altro la natura offriva.
  Si avvicinò 
  a un rovo di more, ormai senza frutti. Sotto ai cespugli però trovò 
  una serie di funghi prataioli che prese e mise nel lembo del la lunga gonna 
  insieme agli altri. Tornata dentro ti pulì. Usando alcune foglie scrollò 
  via la terra, li sciacquò e li mise a cuocere su una griglia improvvisata 
  fatta da sé con un fu di ferro intrecciato. Li cosparse di erbe aromatiche, 
  un po’ di sale e mangiò con appetito quel pasto completato da un 
  liofilizzato di pollo disciolto nell’acqua.
  Non aveva 
  esigenza di mangiare di più perché oltre alla passeggiata del 
  mattino lei restava per tutto il resto del giorno pressoché ferma a fantasticare, 
  o camminava un po’ ispezionando ogni angolo della fabbrica.
  Nei primi 
  tempi il suo corpo aveva dovuto superare un periodo di adattamento ed avvertiva 
  dei segnali dallo stomaco abituato a pasti più completi. Si abituò 
  perciò ad avere a portata di mano sempre una manciata di pinoli che smorzavano 
  i morsi della fame. Di Pigne ne aveva una montagna raccolte in un angolo della 
  sala dov’era il barbecue. Trascorreva ore intere a schiacciare i pinoli 
  con un sasso e raccoglierne i semi in un piccolo cestino che aveva costruito 
  intrecciando foglie di papiro. Poi buttava le pigne vuote tra la legna da ardere.
  Nella zona 
  dove per lo più soggiornava c’era abbastanza luce per tutta la 
  giornata. Il costruttore dell’edificio non aveva lesinato finestre e i 
  raggi di sole entravano riscaldando l’ambiente fino al tramonto. Ogni 
  sera, prima del buio lei si preparava ancora qualcosa da mangiare. In genere 
  cicoria lessata o altre verdure miste condite con succo di mandarino.
  E se aveva freddo 
  beveva un infuso di papavero o di camomilla che le davano tepore e le conciliavano 
  il sonno.
  Più 
  tardi nella stanza rossa, al buio, attendeva di addormentarsi proseguendo nella 
  traduzione della frase in francese.
“ENFIN 
  JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS 
  ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT 
  ET IL ÈTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME 
  UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE. 
  ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT 
  APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ 
  N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE.
  MOI QUI ÉCRIS, 
  J’AI LONGTEMPS MARCHÈ AVANT DE M'ARRETER ET JE VIS DANS CE LIEU 
  DEPUIS TROIS MOIS. J’HABITE UNE CHAMBRE QUE J’AI PEINT EN ROUGE 
  AVEC DE LA PEINTURE TROUVÉE DANS DES POTS ENCORE NEUF OUBLIÈS 
  DANS UN COIN DE L’ESCALIER. CHAQUE NUIT JE REVE QUELQUE CHOSE QUE JE N’ARRIVE 
  PAS À BIEN COMPRENDRE, MAIS QUI MAINTENANT ME POUSSE À ÉCRIRE... 
  AVEC DE LA PEINTURE PLUS FONCÉE SUR LE ROUGE DE CES MURS. CHAQUE NUIT 
  JE SENT PLEURER UN ENFANT... )“
(Finalmente, 
  dopo mezzogiorno, il sole s’eclissa tra i primi alberi del “boschetto” 
  e lo spigolo dell’edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi 
  un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si 
  rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione 
  dell’edificio, che enorme, non riesce però a invadere la calma 
  architettura della flora qui esistente.
  Io che scrivo 
  ho camminato a lungo prima di fermarmi, e vivo in questo posto da due mesi. 
  La stanza che abito l’ho dipinta di rosso con la vernice trovata in dei 
  barattoli ancora nuovi dimenticati in un angolo della scala. Ogni notte sogno 
  qualcosa che non riesco a comprendere bene, ma che mi spinge a scrivere adesso, 
  con la vernice più scura sul rosso della parete. Ogni notte odo piangere 
  un neonato… )
 
  A passi veloci Zola giunse nella zona degli scavi dov’era la Sinagoga 
  ebraica. Lì, nascosto tra i ruderi, attese che dall’altra pane 
  della strada, oltre le corsie delle automobili, la ragazza uscisse.
  Era l’alba 
  e come aveva previsto, lei uscì.
  Zola notò 
  la massa dei capelli rossi, la gonna chiara, un golfino un po’ stretto 
  sulle spalle. La intravedeva a tratti perché ogni tanto spariva tra il 
  fogliame per ricomparire più avanti. Il vecchio prese un binocolo, mise 
  a fuoco e osservò un primo piano del volto. Si sentì rimescolare 
  per l’emozione, Era proprio lei! Era senza ombra di dubbio la ragazza 
  del giornale. Quella che molti credevano rapita o uccisa. Il giovane nigeriano 
  stava in carcere mentre la sua presunta vittima era qui...
  Regolò ancora 
  la messa a fuoco a mano a mano che lei sembrava avvicinarsi dalla pane sua. 
  Attraversava un tratto di sentiero quasi scoperto e poté vederla a figura 
  intera. Perdiana!...
  Posò 
  il binocolo con le mani che gli tremavano. La ragazza era incinta. Si notava 
  perfettamente. E a giudicare dal volume del suo ventre doveva essere anche in 
  uno stato di gravidanza inoltrato.
  "Cosa 
  fa qui?" si chiese.
  Immaginò 
  che ci fosse un uomo con lei dentro l’edificio. Forse una persona che 
  aveva qualcosa da nascondere.
  Il buon senso 
  gli suggeriva di non immischiarsi in questa storia che non prometteva nulla 
  di buono, tuttavia era un uomo coscienzioso e ripensando a quel nigeriano in 
  galera decise che doveva saperne di più.
  Attese che 
  la ragazza rientrasse e poi s’incamminò in quella direzione.
  Passando 
  da un albero all’altro si avvicinò all’edificio velocemente. 
  Entrò, vide la scalinata, si tolse le scarpe e salì. Al primo 
  piano si fermò a guardare le due porte che aveva di fronte. S’affacciò 
  con cautela dalla porta di sinistra e scorse la ragazza, accovacciata al centro 
  della sala, intenta a cuocere qualcosa su un fuoco di legna. Si ritrasse di 
  scatto perché lei, come sentendosi osservata si era voltata. Attese ancora 
  restando per un po’ nascosto, poi riaffacciandosi poté accertarsi 
  che la ragazza era da sola.
  Tornò a casa 
  per governare le bestie e sbrigare le solite faccende del mattino. Al ritorno 
  dal percorso per portare i nipoti a scuola si sedette sulla sedia a dondolo 
  e accese la radio per ascoltare le notizie del giorno. Ormai del caso di Fortuna 
  Fasano si parlava nel radiogiornale nazionale. Dopo poco infatti sentì 
  la voce dell’incaricato della cronaca:
 “Lamin 
  Moundou, il nigeriano arrestato in seguito alla scomparsa della diciottenne 
  di Ciaccolo, ha iniziato lo sciopero della fame e ha dichiarato di essere pronto 
  a rinunciare a vivere se non verrà dimostrata la sua innocenza. La Fasano 
  è sparita circa un mese e mezzo fa e fino ad oggi non si è ancora 
  fatta luce sui motivi di quello che appare un autentico eclissarsi tra la folla 
  di una sagra.
  Le forze dell’ordine 
  hanno trovato il braccialetto della ragazza in casa del sospettato e lo hanno 
  arrestato. Ora stanno cercando di rintracciare la fidanzata di Lamin che potrebbe 
  testimoniare in suo favore. Partita per il suo paese d’origine, e attualmente 
  irreperibile, la donna sarebbe stata presente quando Fortuna fu accolta in macchina 
  dopo aver fatto l'autostop e chiesto di essere accompagnata alla stazione di 
  Latina.
  La comunità 
  di immigrati di colore della zona sta organizzando una manifestazione in favore 
  dell’arrestato. Gli investigatori non escludono però un rilascio 
  per insufficienza di indizi, se non accadranno fatti nuovi.”
Zola spense la radio e meditò a lungo. Capiva la disperazione del giovane Lamin e una grande responsabilità pesava sulla sua coscienza. Soprattutto perché lui era forse l’unico a conoscenza del fatto che Fortuna era viva. Avrebbe dovuto denunciare ciò che sapeva ai carabinieri. Tuttavia restò incollato al suo dodolo, immobile come una statua, a cercare un’altra soluzione.
Fortuna 
  aveva sognato sua madre. Si era svegliata in completo stato di grazia per le 
  immagini della notte trascorsa. Ricordava le mani di sua madre sulle sue, la 
  sua voce che diceva “Sta’ serena”, mentre sorridendo le toccava 
  il ventre con una leggera carezza.
  Soprappensiero camminò 
  più a lungo delle altre mattine. Raccolse della rucola e si spinse fino 
  ad uno spiazzo privo di vegetazione, alle spalle della fabbrica, dove dal terreno 
  qualche volta erano affiorati dei reperti archeologici: pezzetti di anfora, 
  una moneta romana illeggibile sotto lo strato verde di metallo decomposto, dei 
  frammenti di utensili. Affondava con le scarpe sul terreno particolarmente sabbioso 
  e morbido. La guida aveva detto che in quel punto c’era una volta stato 
  il mare; immaginò perciò di avere onde che le bagnavano i piedi. 
  Ma si accorse, osservando la grande distesa sabbiosa, di essersi allontanata 
  troppo dal suo rifugio, e lì, senza la protezione del fogliame, chiunque 
  avrebbe potuto vederla. Velocemente tornò indietro fino alla pineta, 
  poi rallentò. Girò, questa volta verso il lato sinistro dell’edificio, 
  contrariamente al percorso che di solito faceva per rientrare. Vide allora, 
  proprio al limitare del boschetto di pini, un albero di fichi, carico di frutti. 
  Era del genere con maturazione autunnale e si trovava nel pieno della sua produzione. 
  Fortuna raccolse tutto quello che la sua larga e lunga gonna poteva contenere. 
  Prima però ne mangiò il più possibile. Golosamente li sbucciava 
  e ingoiava uno dietro l’altro. Raccolse anche delle larghe foglie in cui, 
  rientrando. mise tutti i frutti raccolti.
  Una volta 
  dentro avverti un peso allo stomaco e sedette sul suo plaid ad aspettare che 
  le passasse il malessere. Ma continue spinte provenienti dall’interno 
  del suo ventre le impedivano di accomodarsi in una posizione definitiva. Si 
  sdraiò da un lato e toccando il punto in cui una piccola protuberanza 
  emergeva dalla pancia rotonda, chiese:
  “Come 
  sei piccolo?”
  Ottenne in 
  risposta dei piccoli fruscii. Riprese quindi a parlargli:
  “Se 
  tu fossi un bambino normale dovrei credere che questa fuga sia stata una follia. 
  Dovrei illudermi di aver letto male l’ecografia, di essermi sbagliata. 
  Volesse Dio che mi fossi sbagliata! Ed è in questa speranza che vivo. 
  Altrimenti sarei già morta. Io con te. piccolo Polifemo saremmo già 
  morti. La tua vita è legata alla mia e comunque tu sia io non ti lascerò 
  solo”.
Una 
  stupida buca nella quale aveva poggiato il piede, quella mattina le causò 
  la slogatura di una caviglia. Avvertì un dolore acutissimo. Si trascinò 
  con grande sforzo tra i sentieri dei boschi e riuscì a trovare, per curarsi. 
  la celidonia, l’erba delle rondini cioè, che raccolse in quantità 
  sufficiente a farsi degli impacchi. Tornò indietro mentre il dolore alla 
  caviglia aumentava. Era ormai vicina all’ingresso della fabbrica quando 
  vide, sotto una quercia, un cestino con delle uova. Erano uova di gallina.
  Chi poteva 
  averle dimenticate?
  Con fatica 
  e dolore cercò di rintanarsi in fretta e risalita su per le scale di 
  corsa, si accorse che il cuore le martellava nel petto per la paura. Restò 
  in attesa di sentire rumori di passi. ma il silenzio era assoluto. Si affacciò 
  cautamente da un angolo di finestra e notò che le uova erano sempre lì. 
  Passò molto tempo a spiare fuori, ma non vide anima viva nei paraggi. 
  Si preparò gli impacchi di celidonia che le alleviarono il dolore alla 
  caviglia. Poté perciò, zoppicando, darsi da fare per cuocersi 
  il pasto. Scaldò un liofilizzato di carne, bollì della cicoria 
  e mangiò con poco appetito perché l’ansia le aveva chiuso 
  lo stomaco. Restò per tutta la giornata ad ascoltare il fruscio del vento 
  tra gli alberi. Quell’unico rumore, nel silenzio assoluto, rotto solo 
  dal passaggio qualche automobile in lontananza, la rassicurava, perché 
  escludeva altre presenze nelle vicinanze.
  Verso sera bevve 
  un infuso di verbena mista a camomilla e si calmò per affrontare la notte. 
  Al buio riprese il suo passatempo notturno prima di addormentarsi. Tradusse 
  ancora un pezzetto di scritta dalla parete rossa:
“ENFIN 
  JUSTE APRÈS MIDI LE SOLEIL S'ÉCLIPSE DERRIÈRE LES PREMIERS 
  ARBRES DU “BOSCHETTO”, DERRIÈRE LE COIN DE CE BÀTIMENT 
  ET IL ÈTEND SUR L’HERBE L’UN DE SES RAYONS, QUI PRESQUE COMME 
  UN SENTIER ÉVITE DE FLORER LES PINS DE SA LUMIÈRE INCANDESCENTE. 
  ON RESPECTE, DE CETTE FAÇON, L’ORDRE NATUREL, QUI S’ÉTABLIT 
  APRÈS LA CONSTRUCTION DE CE BÀTIMENT, MAIS DONT SONT ÉNORMITÉ 
  N’ARRIVE PAS À ENVAHIR LA CALME ARCHITECTURE DE LA FLORE EXISTANTE.
  MOI QUI ÉCRIS, 
  J’AI LONGTEMPS MARCHÈ AVANT DE M’ARRETER ET JE VIS DANS CE 
  LIEU DEPUIS TROIS MOIS. J’HABITE UNE CHAMBRE QUE J’AI PEINT EN ROUGE 
  AVEC DE LA PEINTURE TROUVÉE DANS DES POTS ENCORE NEUF OUBLIÈS 
  DANS UN COIN DE L’ESCALIER. CHAQUE NUIT JE REVE QUELQUE CHOSE QUE JE N’ARRIVE 
  PAS À BIEN COMPRENDRE, MAIS QUI MAINTENANT ME POUSSE À ÉCRIRE, 
  AVEC DE LA PEINTURE PLUS FONCÉE SUR LE ROUGE DE CES MURS.
  CHAQUE NUIT 
  JE SENT PLEURER UN ENFANT. CHAQUE NUIT. SES VAGISSEMENTS RETENTISSENT DANS LE 
  BÀTIMENT JUSQU'À CE QUE ME RÉVEILLE, MON COEUR BAT LA CHAMADE 
  ET JE SUIS PLEIN DE PEUR.
  DE QUI EST 
  CET ENFANT?
  POURQUOI 
  PLEURE-T-IL? 
  JE N’AI AUCUNE 
  RÉPONSE ET JE NE COMPRENDS PAS. JE N’AI PAS D’ENFANT. JE 
  N’AI LAISSÉ AUCUNE FEMME DANS LES VILLES QUE J'AI HABITÉES. 
  JE N’AI PAS DE REMORDS. DE QUI EST ALORS CET ENFANT EN LARMES?”
(Finalmente, 
  dopo mezzogiorno, il sole s’eclissa tra i primi alberi del “boschetto” 
  e lo spigolo dell’edificio, stendendo sull’erba un raggio, quasi 
  un sentiero, che evita di sfiorare i pini con la sua luce incandescente. Si 
  rispetta, in questo modo, l’ordine naturale che si instaura dopo la costruzione 
  dell’edificio, che enorme, non riesce però ad invadere la calma 
  architettura della flora qui esistente.
  lo che scrivo 
  ho camminato a lungo prima di fermarmi e vivo in questo posto da tre mesi. La 
  stanza che abito l’ho dipinta di rosso con la vernice trovata in dei barattoli 
  ancora nuovi dimenticati in un angolo della scala. Ogni notte sogno qualcosa 
  che non riesco a comprendere bene, ma che mi spinge a scrivere adesso, con la 
  vernice più scura sul rosso della parete. Ogni notte odo piangere un 
  neonato. Ogni notte. I suoi vagiti riecheggiano nell’edificio fino a svegliarmi, 
  col cuore in gola e la paura.
  Di chi è 
  figlio quel bambino?
  Perché piange?
  Non ho risposte 
  e non comprendo. Non ho figli, non ho lasciato donne nelle città in cui 
  ho abitato. Non ho rimorsi. Di chi è allora questo neonato in lacrime?… 
  )