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Pensai a suo padre, non riuscivo più a chiamarlo "mio marito" dopo i fatti terribili che sconvolsero le nostre vite; lo rividi intrappolato in una stanza con la finestra protetta da inferriate e, con raccapriccio, rividi le tempie bruciate che deturpavano il suo bellissimo volto.
Quando mi aprirono la porta di quella cella, lui mi vide senza vedermi poi, come un lupo ferito, mi afferrò, mi spinse contro il muro e... e mi cacciò via, senza neanche chiedere del nostro bambino che allora aveva appena un anno.
Dopo qualche giorno da quel drammatico incontro, lo psichiatra che lo aveva in cura telefonò ai miei suoceri, informandoli che stavano sperimentando su loro figlio una nuova terapia chiamata “elettroshock”, terapia che, negli anni '50, era ancora in fase di speramentazione.
Quella macchina infernale che invia potenti scariche elettriche al cervello (con la pretesa di guarirlo) era stata introdotta dal professor xxxxxxxx a cui mio marito si era rivolto per alcuni lievi disturbi nervosi che, durante la notte, gli accelleravano il battito cardiaco: disturbi verificatisi dopo la morte del fratello.
Per tutta la vita ricorderò, come scudisciate sulla pelle viva, le parole con le quali il primario mi accolse quando, ignara di ciò che stavano facendo a mio marito, andai in clinica, sicura di poterlo incontrare. Parole che ancora oggi mi bruciano nella mente a caratteri di fuoco, come il marchio che s’imprime sulla pelle di un animale che nessuno potrà più rimuovere.
-Sono addolorato di doverle negare il permesso di visitare suo marito, ma dopo l’elettroschok siamo stati costretti a sedarlo con dei tranquillanti. Suo marito possiede una grande forza; continuava a recalcitrare come un “mulo”, anche dopo la terapia. Non è in grado di ricevere visite-
Cominciai a singhiozzare, ma lui continuò a “spellarmi” il cuore:
-Ho il dovere di dirle che la terapia a cui vengono sottoposti i nostri pazienti, per un lungo periodo di tempo, altera la sfera affettiva, cancellando ricordi e sentimenti; quando lo vedrà potrebbe non riconoscerla-
Balbettai:
-E mio figlio?-
Mi rispose che l’amore verso il figlio, come amore "discendente" e quindi più difficile da cancellare, lo avrebbe recuperato in minor tempo.
Le conseguenze di quella terapia furono tragiche.
L’amore nei miei riguardi divenne paura. La sua mente gli diceva che io ero la sola responsabile di quello che gli avevano fatto. Un solo desiderio lo dominava: umiliarmi come donna e come persona.
Pagai a caro prezzo l’ostinazione di restargli accanto!
Una “sindrome ansiosa depressiva endoreattiva, stato d’allarme fobico” mi obbligò, dopo una visita collegiale, ad abbandonare l’impiego… unica mia fonte di sostentamento!
La mia mente, non potendo più gestire i pensieri in modo coordinato, sfogava quella sua mutilazione con crisi di disperazione, fino a negarmi la lettura per la totale impossibilità di concentrazione.
Ero diventata una larva di donna!
Non ricordo molto di quel periodo. Esso è rimasto come un grosso buco nero che, col tempo, riuscii in parte a reinventare più che a recuperare, affidando a dei fogli bianchi i miei sogni.
Essi diventarono la mia voce, mai la verità!
Solo quando il medico di famiglia mi confidò che mio marito, innamoratosi di un’altra donna, stava iniziando le pratiche per farmi rinchiudere in una clinica per malattie mentali, ritrovai, aiutata dallo stesso medico, quel barlume di volontà che mi permise di fuggire insieme a mio figlio.
Da quel momento non pensai più a morire, ma gestii la mia “pazzia”, inventandomi, giorno dopo giorno, la Vita che ritornai ad amare e ci riuscii grazie a quel centro nervoso della Fantasia, ben custodito nel mio cervello, che non permisi mai a nessuno di toccare.
Grazie alla musicalità e alla poesia, doti nate insieme a me, mi scoprii paroliera.
Incontrai famosi musicisti che mi affidarono la loro musica perché la riempissi di Poesia, meritandomi plausi e consensi.
La canzone al cui ricordo ancora piango di gioia fu quella che scrissi sulla musica di mio figlio, con la quale vincemmo il primo premio ad un Festival Europeo indetto dall’U.N.I.C.E.F., svoltosi ad Amsterdam.
Mai momento fu più commovente come quello in cui il presentatore pronunciò i nomi degli autori che avevano portato la canzone italiana alla vittoria.
Quel riconoscimento fu la mia prima grande vittoria di artista, mentre quella di donna l’ebbi il giorno in cui mio figlio bussò alla mia porta.
Aveva con sè una piccola valigia ed io lessi nei suoi occhi una grande determinazione
“E’ proprio figlio mio” pensai e per evitare di commuovermi troppo ripetei, ridicolizzandole, alcune frasi dette da quella ”signora" poi gli chiesi chi l’avesse accompagnato al che mi rispose:
-Mi ha accompagnato papà. Mi ha detto di informarti che non era a conoscenza dell'incontro in quel bar-
Mentre lo abbracciavo commossa, ingenuamente, aggiunse:
-Sai che quella “signora” pretendeva che la chiamasse mamma?-
Io seguitai a ridere anche se mi sentii strappare gli occhi, lo stesso dolore di quando mi trovai intrappolata nella stanza con le inferriate alla finestra, insieme ad un "giovane bellissimo dalle tempie bruciate".

*** *** ***

A quella stessa porta, dopo qualche anno, bussò anche il padre di mio figlio.
Una mattina telefonò chiedendomi il permesso di salire; quando risposi credetti di svenire dall’emozione:
-Tu?… Ma certo che puoi salire! Ultimo piano, uscendo dall’ascensore a sinistra-
Mi tolsi in fretta i guanti da giardiniere che abitualmente indossavo per accudire le piante del mio terrazzo trasformato, per merito del mio pollice verde, in un lussureggiante “giardino pensile”.
Cercai di mettermi un pò in ordine, non volevo apparire come una donna sciatta ed indossai una civettuola tutina rosa-salmone.
Al suono del campanello, buttai l’ultimo sguardo allo specchio, ravviai i miei capelli con un colpo della mano... non c’era tempo per fare altro e andai ad aprire.
Quando lo vidi il cuore mi arrivò in gola: il tempo non era passato!
Gli tesi la mano pronunciando la frase più banale del mondo:
-Che gioia rivederti!-
Lui non proferì parola, ma mi seguì in silenzio mentre lo facevo accomodare in salotto: nascondeva il suo imbarazzo guardandosi attorno, evitando di guardarmi negli occhi.
Riconquistata la sua padronanza iniziò col dire:
-Sono qui per parlare di nostro figlio; da quando è tornato a vivere con te, so molto poco di lui. Quando viene a trovarmi mi parla solo della sua musica. Mi ha detto che vuole frequentare il conservatorio; vuole fare il musicista-
Dissi quasi in un soffio:
-Il mio bambino!…-
Replicò:
-Non è più un bambino! Perché ti ostini a considerarlo ancora tale?-
Compresi di aver commesso un errore e cercai di riparare. Non volevo che pensasse che fossi rimasta abbarbicata al passato e corressi il tiro:
-Mi rimane difficile considerarlo già un ragazzo: non mi ricordo molto della sua infanzia. Spesso mi sono dovuta accontentare di andarlo a vedere all’uscita della scuola. Non mi permettevate di sentire neanche la sua voce per paura che le mie telefonate potessero turbare l’equilibrio della vostra nuova famiglia. Anche le mie lettere gli furono sottratte-
E pronunciai la frase che da tanto mi bruciava dentro:
-Perché questa madre vi ha messo sempre tanta paura?-
-Tu sei rimasta una donna libera -rispose- non puoi capire le difficoltà, i problemi che sorgono quando ci si rifà una vita avendo alle spalle un fallimento matrimoniale-
Mentre parlava continuava ad evitare il mio sguardo.
Nell’osservarlo non osservata, notai le sue tempie brizzolate e tante piccole rughe attorno agli occhi. Notai, inoltre, la raffinatezza del suo abbigliamento, ma soprattutto guardai la fede che portava all’anulare della mano sinistra: una fede piatta, moderna, molto diversa da quella tradizionale che ci scambiammo insieme ai sogni della nostra giovinezza.
Per interrompere quell’imbarazzante silenzio ripresi a dire:
-Capisco tutto, però spiegami perché, se la tua compagna non sa accettare serenamente la tua posizione di uomo separato, al punto di desiderare di essere chiamata mamma da mio figlio, ti ha scelto come il compagno della sua vita?-
Ebbe un piccolo gesto d’impazienza, non rispose alla domanda, ma entrò nel vivo del motivo di quella sua visita:
-Sono qui per chiederti di convincere nostro figlio a comportarsi più civilmente verso la mia nuova famiglia. Quando viene a trovarci assume verso gli altri ragazzi e la loro madre un atteggiamento di sopportazione. Mai che una volta esca insieme a loro-
Lo interruppi:
-Sono sicura che se tu gli chiedessi di uscire solo con te ne sarebbe felice e ti racconterebbe di sé più di quanto faccia adesso-
Cambiai discorso, volevo diventargli amica, quelle polemiche ci avrebbero allontanato nuovamente e forse definitivamente e io non volevo che questo accadesse proprio per il bene di mio figlio.
Ma lui come se inseguisse un suo pensiero replicò:
-E’ vero, io mi sono rifatto una vita e tu no, ma questa non è una ragione per farti sentire migliore di me!-
Nel dialogo che seguì non vi fu nessun accenno al passato; fui molto attenta a non ricordargli quel triste periodo della sua vita. Doveva essere lui a volerne parlare, ma lui non ne parlò né allora né mai ed io tacqui, convincendomi che la sua mente aveva rimosso per sempre quella violenza.
Avvertì la sincerità della mia voce quando gli dissi:
-Lascia che l’amore verso nostro figlio possa tenerci ancora uniti come dei veri amici! Tutto il resto fa ormai parte di un passato che nessuno potrà più renderci-
Consultò l’orologio, ebbe un atto d’impazienza e si avviò verso la porta. Mi disse che la sua compagna era una donna sospettosa e gelosa e non avrebbe mai sopportato l’idea che lui potesse incontrarmi. Le sue visite dovevano restare il nostro segreto, come segreto doveva restare il suo aiuto economico. Mi chiese di informare nostro figlio di quel tacito accordo.
Sorrise nel chiedermi:
-Sempre che tu voglia vedermi ancora!-
Lo abbraccia.
-Come sei cambiata! Prima di salire ho temuto di dovermi scontrare con una donna capricciosa e ribelle. Invece ho trovato una donna desiderosa solo di aiutarmi! Cosa ti ha fatto crescere? -e aggiunse- Sei una donna serena?-
Non risposi alla sua domanda, lo presi per un braccio e gli mostrai le mie rose azzurre.

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