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DIETRO LA FINESTRA

Il sole si era impadronito del cielo quando riaccostai la persiana per inseguire il mio perduto sonno: non lo raggiunsi perché Bibì si era letteralmente impossessata dei miei pensieri.
La vedevo muoversi nella stanza mentre escogitava birichinate e dispetti, ma solo per attirare l’attenzione su di sé. Se la famiglia avesse sorriso delle sue fantasie, il diavolo si sarebbe annoiato scappando con la coda in mezzo alle gambe!
Riudivo la sua bella voce che, quando voleva comunicare i suoi pensieri, pronunciava parole puntigliose e precise, coma la volta che tentò di spiegare la provenienza della sua musica:
“Sento una musica che non è una musica… eppure è una musica. Un suono di violini incantati che arriva da lontano… mi cattura e mi porta in un altro mondo, un mondo fatto di cielo e di stelle”
La solitudine è portatrice d’immagini lontane. Ci sono voci che continuano a singhiozzarti dentro, voci che non puoi e non vuoi che tacciano.
Sentii dei brividi percorrermi lungo la schiena. Avrei chiuso volentieri la finestra, ma l’acre odore di vernice mi sconsigliò dal farlo. Il desiderio di tornare in quella casa era stato così prepotente da impedirmi di aspettare che le vecchie mura, tinteggiate di fresco, si asciugassero del tutto.
Non vi era in me alcun desiderio di alzarmi; quel disordine mi sgomentava un po’… meglio seguitare a poltrire e m’arrotolai nella coperta fino agli occhi.
Lì, al calduccio, mi sentivo come un cucciolo che, dopo essersi smarrito, ritrovava la protezione della propria tana. Quella tana ritrovata mi avrebbe permesso di vivere come un poeta, non come una persona qualunque.
Gli accadimenti della mia vita si accavallavano in una ridda di pensieri e di considerazioni e mi compiacqui della mia innata abilità di romanzare anche i momenti più anomali e difficili: merito del "vetro colorato" ereditato da Bibì.
Come rispondere? Con quali parole? Continuerò a credere ad una vita inventata, ma interamente vissuta? Per quanto tempo potrò restare con le persiane chiuse ad aspettare di afferrare fantasmi?
Qualunque esperienza, qualunque decisione, anche la più dolorosa durava il minimo indispensabile; avevo l’abilità di consumarla come la fase di un falso innamoramento, riuscendo, subito dopo, a ridicolizzarla, dissacrando nel contempo fatti e situazioni non in sintonia col mio “essere”… restavano i lati positivi che conservavo nella memoria come parametri di confronto.
Questo processo accadeva con tale precisione da far pensare che qualcuno innescasse nella mia mente una bomba ad orologeria che disinnescavo un attimo prima che esplodesse.
Al confronto anche un campo minato diventava di uno squallido!
Dopo seguiva una fase d'apparente letargo, una catalessi cosciente che dava, a chi mi osservava, la netta sensazione di trovarsi di fronte ad una persona che aveva perduto ogni volontà e capacità d'affrontare anche il più piccolo problema. In realtà io accantonavo quel problema nell'attesa di poterlo affrontare con raziocinio e coerenza, ma, soprattutto, con la volontà di risolverlo. Mi sono, più volte, avventurata in percorsi tortuosi e difficili, ma solo per raggiungere, sana e salva, la strada maestra. Un po’ come la tattica usata dagli animali che, braccati su un terreno dove vengono a mancare le loro difese naturali, tentano di mimetizzarsi con l’ambiente, restando immobili, ma vigili, pronti a catturare ogni minimo errore di chi, per troppa sicurezza, sottovaluta il proprio avversario. Era quell’errore di valutazione verso la mia persona che mi consentiva di fare la "mossa" che rimetteva tutto in gioco, come quando affidai mio figlio al mio ex marito, a causa di una forte depressione che mi costrinse a ricorrere alla terapia del sonno, convinta che “dopo” non sarebbero sorti problemi, ma quando mi “svegliai”, dopo alcune telefonate ed inutili tentativi per rivederlo, ebbi “l’impudenza” (così fu definito il gesto) di andarlo ad aspettare all’uscita della scuola.
Anche i due figli della compagna del mio ex marito frequentavano lo stesso istituto e questa mia iniziativa la preoccupò, inducendola a chiedermi un colloquio.
Fu la prima e l’ultima volta che vidi quella ”signora” che in quell’unica occasione commise due errori… errori che le ritornarono addosso come boomerang.
Il primo fu quello di sottovalutare il mio desiderio di riprendermi il figlio: era convinta che si sarebbe trovata davanti una donna vogliosa di godersi la vita senza problemi e responsabilità.
Il secondo fu quello di presentarsi all’appuntamento insieme al bambino.
Entrammo in un bar, nei pressi di Santa Maria Maggiore e ci sedemmo in una piccola sala interna.
Fin dalle prime parole compresi che quell’incontro nascondeva una finalità ben precisa... una trappola!
Il tono mellifluo, carico di pietà, striato da pennellate di falsa comprensione per la mia persona aumentarono la mia diffidenza.
Esordì col dire:
-Lei, cara signora, mi ha lasciato una scomoda poltrona...-
Non la interruppi mai. Ascoltavo con aria apparentemente passiva le sue parole, volevo che credesse che pensassi ad altro. Volevo che esprimesse ogni suo pensiero a ruota libera, mentre io, appiattita nel mio mondo, aspettavo l’errore che mi avrebbe permesso di “saltarle addosso”.
Privata di un interlocutore partecipe, il monologo della “signora”, recitato a soggetto, si avvitava sempre più attorno ad un pensiero incoerente e privo di contenuti.
Feci fatica ad ascoltarla, ma ricordo molto bene le ultime parole che coronarono la “sceneggiata”:
-Me l’avevano descritta come un mostro a tre teste!- disse con voce salottiera -Non avrei mai immaginato di trovarmi davanti una donna tanto comprensiva! Sono sicura che lei accetterà che il bambino resti con suo padre. “Noi” la sosterremo con un sostanzioso aiuto economico che le permetterà di curarsi con assoluta tranquillità-
Aprì la cerniera della sua bella borsa di coccodrillo, vi affondò le dita cariche di gioielli, ne estrasse un libretto di assegni che appoggiò, con noncuranza, sul tavolo e… finalmente tacque.
Cercai lo sguardo di mio figlio e, quando i nostri sguardi s’incrociarono, attinsi dai suoi occhi quella forza che lui mi chiedeva di mostrare. Non potevo deluderlo, non potevo commettere errori! L’amore verso di lui urlava talmente forte da controllare la crisi che mi lacerava dentro. La mia indignazione di donna e di madre riuscì a farmi ingoiare anche i singhiozzi che battevano forte nella gola, quasi a soffocarla. Pensai ai tranquillanti presi prima di uscire e in cuor mio me ne compiacqui. Ma lo sforzo di volontà, cui mi stavo sottoponendo per apparire calma, contrasse i muscoli del viso, alterandone i lineamenti; non vedevo la mia faccia, ma ne sentivo la dolorosa maschera.
Guardai quella bella donna, alta, bruna, occhi verdi, avvolta in una stupenda cappa di visone e così carica di gioielli da ferire gli occhi!
Come aveva potuto la sua bocca vomitare tante oscenità?
Come poteva pensare che si potesse barattare un figlio?
Tolsi i grandi occhiali scuri… volevo che vedesse tutta la fierezza del mio sguardo:
-Gentile “signora”- dissi, imitando la pacatezza della sua voce -Non stiamo in quelle tribù di zingari dove si barattano bambini, né posso chiedere a mio figlio di legarsi al mio carro senza prima avergli spiegato che dovrà rinunciare all’agiatezza di cui oggi gode-
Mi fermai un attimo per stringere la mano di mio figlio; volevo rassicurarlo che qualunque decisione lui avesse preso al riguardo, l’avrei capito e conclusi il mio breve discorso:
-Nella mia vita ho superato esami più dolorosi! Mi meraviglia che una madre possa parlare in questi termini a un’altra madre meno fortunata di lei!-
Mi ricordai di quando la mia compagna di banco cercò di umiliarmi, ma questa volta ero consapevole di essere io la più forte: avrei aperto il mio cestino e mostrato, senza timore di confronto, la pienezza del suo contenuto.
Terminato il colloquio, ci avviammo all’uscita e, mentre quella donna seguitava a “vomitare” stupidità, salutai mio figlio che si alzò sulla punta dei piedi, costringendomi ad abbassare il viso all’altezza del suo, per baciarmi senza proferire parola.
Corsi verso la mia cinquecento, mi affloscia sul sedile e cominciai a urlare con la testa riversa sul volante.
I singhiozzi, così lungamente repressi, esplosero in tutta la loro violenza. Mi arrivava la voce di quella donna, ma il senso del suo discorso non lo ricordavo più; nitido, invece, era l’eco della voce che mi rimbalzava:
“Non stiamo in una tribù di zingari….”
E questa frase seguitava a martellarmi la mente con un ritmo ed un tempo ben preciso, ad intervalli regolari:
“Non stiamo in una tribù di zingari….”
Colpi uguali e precisi come quelli che il battitore scandiva sulle antiche galere affinché i remi affondassero, pescassero e riaffiorassero all’unisono… così i miei pensieri affondavano, pescavano e riaffioravano dal mare dei ricordi, sempre più dolorosi:
“Non stiamo in una tribù di zingari…”
Sarei morta se quei colpi non mi avessero obbligata a riaffiorare in superficie per cento, mille, un milione di volte: la mia vita non poteva fermarsi, dovevo vivere per mio figlio, l’avevo letto nei suoi occhi.
Superata la crisi, mi ritrovai davanti alla Chiesa di San Pietro in Vincoli ed entrai nel sacrato come un automa. Il sarcofago di cristallo, illuminato da luce diffusa, era sempre lì ed il piccolo Aurelio sembrava che stesse aspettandomi.
Caddi in ginocchio, mentre una cascata di lacrime si sovrapposero tra me e lui annebbiandomi lo sguardo.
Un sacerdote si avvicinò chiedendomi se avessi bisogno d’aiuto, poi aggiunse che era l’ora di chiusura e mi accompagnò verso l’uscita.
Quando mi ritrovai nella cinquecento io non soffrivo più: il cuore mi diceva che mio figlio sarebbe tornato da me!

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