all'autenticità
della lingua "materna", cioè il dialetto,
e come fosse più accentuato il divario economico
e sociale tra Nord e Sud, essendo ancora lontani il boom
economico, che avrebbe portato un po’ di benessere
in generale in tutto il nostro paese, ed il consumismo,
che avrebbe uniformato ed omologato gusti e consumi.
E, così, nel film spostarsi per andare a Milano,
nella città tentacolare, probabilmente luogo ove
imperanti erano il vizio e la dissolutezza (vedi le "donne
d’alto bordo", le malefemmine) per andarsi
a riprendere il nipote che aveva smarrito la retta via,
significava far saltare tutte le coordinate geografiche,
culturali, sociali e linguistiche del povero Totò,
tanto che, prima di partire, necessitava di essere messo
"aggiorno", istruito da un amico che a Milano
c’era stato e poteva riferirgli che lì il
traffico era enorme, il clima rigido, e che c’era
molta nebbia, tanto che spesso non si “vedeva”
(affermazione, quest’ultima, che più di ogni
altra preoccupava Totò, anche se, poi, si rassicurava
quasi subito pensando che, per incontrare qualcuno, a
Milano bastasse mettere il nome su un manifesto).
Milano era lontana, gelida come la Russia (e, infatti,
la musica che accompagnava l’ingresso di Totò,
del fratello e della sorella, ricordava quella folkloristica
russa) perciò bisognava vestirsi da siberiani.
Milano era terra straniera, abitudini ed usi diversi,
perciò era consigliabile portare con sé
vino, olio, pane, salame, prosciutti, salsicce, caciotta,
due galline (conservare le proprie abitudini alimentari
diveniva anche un modo per continuare a sentirsi agganciati
al proprio paese). Milano non era il proprio paese, non
era nemmeno Italia e, dunque, bisognava esprimersi in
un altro modo, in un plurilinguismo a metà tra
il francese ed il tedesco, come quello usato per chiedere
informazioni in piazza del Duomo, erroneamente ritenuta
piazza della Scala, al vigile scambiato per generale austriaco,
ma, avendo avuto un amico prigioniero in Germania, Totò
non si scoraggiava e chiedeva: Noio volevons savoir l’indiriss…ja?
E, quando, poi, proprio diveniva impossibile servirsi
della parola parlata, usava il linguaggio scritto, classico
dei classici nella comicità, espediente letterario
ben noto al teatro e alla letteratura fin dalle origini:
la lettera. Nella lettera, però, bisognava scrivere
bene e, dunque, non veniva tralasciata alcuna regola,
nel pieno rispetto dell’ortografia e delle regole
sintattiche, seppure reinterpretate, sovrabbondando e
manipolando, mescolando e confondendo congiunzioni, aggettivi
qualificativi, segni d’interpunzione, singolari
e plurali, utilizzando il latino, l’italiano ed
il vernacolo napoletano, appunto, alla maniera di Totò,
che si produceva in una composizione a dir poco esilarante.
Ma il nostro eroe superava benissimo il senso di disagio
e spaesamento procurato dall’approdo a Milano e
dall’impatto con l’italiano, costretto ad
usare con chi non era del suo paese, altalenando disinvolto
tra lingue classiche, romanze e dialetti, districandosi
tra grammatica, sintassi, ortografia e semantica, da uomo
di mondo "poliglotta" quale, appunto, era, emettendo,
infine, un rassicurante sospiro di sollievo quando si
rendeva conto che il vigile del film parlava italiano;
in fondo tutto il mondo era paese e Milano era come il
suo paese, solo più grande.
Totò, che cinematograficamente bisticciò
tanto con la lingua italiana, nella realtà fu un
fine parlatore, dall’italiano impeccabile, e solo
in poesia si espresse nella bella lingua del Golfo, cantando,
come un provenzale poeta di corte, l’amore in tenera
sottomissione verso le donne, che tanto amò e di
cui sempre rispettò intelligenza e capacità. |