Francesca
Santucci
V. VAN GOGH: "CAMERA DA LETTO DELL'ARTISTA"

V. Van Gogh, “Camera da letto dell’artista”,
1888, olio su tela
E'
il disagio mentale, non vera e propria alienazione, ma comunque
malessere acuto e profondo squilibrio che sfociavano in crisi,
studiati in retrospettiva dai medici per comprendere se si trattasse
di epilessia o schizofrenia, il nodo dolente della vita di Van
Gogh e il nucleo centrale della sua vicenda artistica.
La sua fragilità psichica lo portò ad essere una
persona inquieta, turbata, sofferente, ad aggredire gli altri
e se stesso, finendo tragicamente suicida in un campo così
simile al suo "Campo di grano", e a riversare tutti
i turbamenti, le allucinazioni, le angosce, nelle sue tele,
perché dipingere era l’unico modo possibile per
uscire dalla disperazione, per agire ed interagire col mondo
esterno, per vivere, insomma.
Van Gogh, nel quadro “Camera da letto dell’artista”,
nel 1888 dipinse la sua stanza della “Casa gialla”
di Arles, mentre attendeva Gauguin, sperando d’impressionare
favorevolmente l’amico per poter realizzare un centro
di una colonia d’artisti, fra i quali lo stesso Gauguin.
L'intento era quello di comunicare un’impressione di grande
semplicità, di “perfetto riposo”, perciò
rappresentò la propria stanza in un insolito stato di
ordine, con pochi oggetti, utilizzando colori puri ed armoniosi,
con contorni molto marcati, eppure ciò che comunica è
una sensazione di angosciante e vana attesa, di turbamento ed
inquietudine.
Quelle due sedie nel quadro e quel letto vuoto ricordano l'estrema
solitudine di Van Gogh e, per estensione, di quella di tutti
i malati di mente, di solitudine fisica, dovuta all’isolamento
nell’ospedale, nel reparto, nella camera, nel loro letto,
e di solitudine interiore, dovuto al turbinio dei pensieri,
sconosciuti ai “sani”, che si agitano nelle menti
alterate e sconvolte, che non può essere lenito da nessuna
carezza.
Sono due sedie vuote, poggianti su un pavimento le cui linee,
insieme con quelle del letto, sembrano correre all’indietro
risucchiate verso il punto di fuga; il letto, addossato alla
parete, pare in attesa di qualcuno a cui non porterà
il sollievo desiderato, o che forse non verrà mai a confortare
quel corpo che ancora non vi è disteso ma di cui pure
già aleggia l’inquietante presenza, in quella stanza
angusta con una finestra dalle imposte chiuse (altro elemento
di desolazione), non perfettamente, ma chiuse, dalle quali nulla
trapela all’esterno e nulla filtra all’interno.
E’ presente anche il giallo in questo quadro, il primo
colore a sbocciare in natura, gialle sono, infatti, le primule
spontanee e le pratoline selvatiche, i fiori che annunciano
la primavera, giallo è il disco solare apportatore di
vita, ma il giallo è un colore sempre presente nei quadri
di Van Gogh, insieme al blu, evocatore della notte, apportatrice
delle paure inconsce ed anche della quiete, “a me sì
cara vieni, o sera”, recita il Foscolo.
Nonostante la presenza del colore luminoso il quadro, però,
non suggerisce affatto la solarità, la predisposizione
all’apertura, piuttosto il senso totale di chiusura e
di claustrofobica oppressione, perché è un luogo
chiuso, una stanza senz’alcuna presenza umana, con un
letto vuoto, due sedie vuote ed una finestra occultatrice.
La “Casa Gialla” in cui visse Van Gogh ad Arles
era un piccolo edificio a due piani, con 4 stanze, contigua
ad un negozio alimentare; più tardi l’intera costruzione
divenne un bar che fu bombardato nel 1944: Van Gogh era già
morto da tempo, si era sparato un colpo di rivoltella in un’assolata
domenica di luglio del 1890, quando il cielo era azzurro, il
grano era giallo e i corvi neri svolazzavano tra le pannocchie,
proprio come nel quadro che aveva dipinto in quello stesso mese.
Dev’essere vero che nella vita di un artista forse la
morte non è la cosa più difficile; per Van Gogh
sicuramente la cosa più difficile fu vivere.
Francesca
Santucci
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