QUANDO SI DICE 50e50

Roma 13 ottobre 2007, Piazza Farnese
Pina Nuzzo

Oggi quando si dice 50E50 tutti capiscono di che cosa si tratta e sanno che si parla di democrazia paritaria.
Tutti capiscono – almeno quelli che hanno letto il testo senza pregiudizi - che non stiamo parlando di rappresentanza di genere, perché noi non vogliamo che le donne rappresentino le donne ma che le donne esercitino un diritto costituzionale: la possibilità di essere candidate ed eventualmente di farsi eleggere per rappresentare uomini e donne.
Così come oggi un gran numero di uomini - a fronte di un esiguo numero di donne - rappresenta uomini e donne.
Tutti capiscono che non chiediamo il riequilibrio fra i generi attraverso forme di tutela, ma che vogliamo essere presenti ai nastri di partenza per gareggiare alla pari.
Quando ci siamo rese conto, ormai un anno fa, che ci eravamo messe all’angolo da sole accettando infinite discussioni sulle quote: è giusto il 20, è meglio il 30, fino ai più democratici che si dichiaravano per il 40… abbiamo detto basta e siamo uscite dalla gabbia delle parole per dire a voce alta 50E50 ovunque si decide.
Lo abbiamo detto e lo abbiamo anche fatto proponendo una legge di iniziativa popolare che realizzi l’articolo 51, presente nella nostra Costituzione fin dal 1948.
Abbiamo dimostrato che una legge si poteva fare, quando per anni ci hanno detto che c’erano insormontabili problemi di carattere giuridico. Abbiamo dimostrato che si poteva fare in modo semplice, in modo che, leggendola, ogni cittadino sapesse che cosa stava firmando. Abbiamo anche dimostrato che una democrazia paritaria si può adottare con qualunque sistema elettorale.
Con un seminario, nel mese di febbraio, abbiamo presentato alle donne la nostra proposta di legge e più complessivamente la campagna e chiesto di fare questo pezzo di strada insieme.
La campagna 50e50 ovunque si decide così avviata ha trovato una rispondenza immediata ed è stato chiaro a tutte che aderire all’ iniziativa non voleva dire entrare a far parte dell’UDI.
Noi abbiamo solo chiesto fiducia e dato credito e quindi le risposte non sono mancate, anzi sono cresciute ogni giorno. Tante le associazioni e le organizzazioni di donne, ma soprattutto tante le singole donne che hanno scritto, telefonato, non solo per firmare, ma per mettersi a disposizione e per dirci che avevano piacere di prendere l’iniziativa e di farsi Centro di raccolta.
Sono nati in questo modo i Centri di raccolta in tutta Italia, e in alcune città più di uno e in altre più gruppi si sono messi insieme. Quando è stato possibile le donne dell’UDI si sono mescolate alle altre, dove non è accaduto ogni centro ha tranquillamente convissuto con gli altri. Fino ad oggi sono 124 i Centri di Raccolta, ma è un numero suscettibile di continuo cambiamento ed è stato un crescendo di contatti, relazioni, scambi, è stato un fiorire di iniziative e di tavolini, ma anche un mettere in moto la fantasia e la creatività come non si vedeva da tempo, ed ecco allora il kit, le bandiere, le magliette, l’inno, gli adesivi, le cene di autofinanziamento, i tornei di burraco, le spille, i biscotti delle donne di Comacchio, proprio uguali alle spille - mi hanno scritto - anche con la E rossa.
Questa campagna ha modificato immediatamente il linguaggio dei politici che hanno abbandonato le quote per dichiararsi a favore del 50E50: sempre naturalmente cancellando l’origine e annettendosi il merito dell’idea. Questo è già un risultato: quando le parole spostano, spostano le persone e cambiano le cose.
Quando un’azione politica punta al rialzo si producono dialettica e cambiamenti e diventa chiaro a tutti che non esisteranno nuovi schieramenti e nuove risposte se non cambierà la posizione di partenza, che deve prevedere la nascita di una realtà istituzionale e politica basata sui due generi, su due visioni del mondo e una comune responsabilità verso il futuro.
Questa campagna ha aperto anche discussioni e conflitti, ci sono donne che hanno deciso di impegnarsi in questa campagna a prescindere dalle posizioni del loro partito o della struttura cui pure sentono di appartenere, che hanno dovuto patire l’esistenza di ostacoli e malintesi, e che nonostante tutto si sono autodeterminate così come hanno fatto, in tutta semplicità, donne lontane dalla politica.
Oggi molte di voi, le donne dei Centri, siete qui ma penso anche alle tante che non sono potute partire perchè precarie, perché sono nonne che accudiscono i nipoti, perché figlie che si occupano di genitori anziani perché…insomma hanno la vita che noi donne conosciamo bene e però stanno lavorando tanto, “come formiche” così mi hanno scritto da Livorno.
Siamo in piazza per dire che crediamo nella partecipazione, perciò non ci accontentiamo di stare dentro un’ economia familiare e allora il nostro tempo, i soldi e le energie non sono solo per la famiglia, ma investiamo anche su di noi, sul nostro genere. E sulle nostre figlie perchè sono colte, sono preparate, sono capaci e non vogliamo che nel loro futuro ci sia un tetto di cristallo.
Siamo qui perché ci sentiamo parte di una dimensione collettiva, per testimoniare un’appartenenza politica di donne e per dar voce a quante in questi anni hanno lavorato per abbattere quella porta che troppo spesso ci esclude dai ruoli decisionali. E’ ora di aprire quella porta.
Siamo qui a nostre spese.
E con la forza delle firme che abbiamo raccolto e del lavoro fatto.
Perciò con orgoglio vi dico che abbiamo raccolto ben più di 50.000 firme.
Le firme andranno consegnate al Senato della Repubblica il 30 di Novembre, ma entro il 15 tutte le firme devono pervenire nella Sede nazionale dell’UDI perchè da quel momento avremo solo pochi giorni per il controllo. Dovremo avere più del doppio delle attuali firme, perché non dobbiamo mai dimenticare che a decidere sul destino della legge saranno istituzioni fatte di maschi e che, per vincere, dovremo fare opinione, avere dalla nostra parte tante donne, ma anche i tanti uomini che condividono la nostra battaglia.
E’ più che mai vero quello che vi ho sempre detto e scritto: che possiamo contare solo su di noi e su un uso funzionale di internet. Grazie alla posta elettronica la comunicazione tra noi è stata veloce e poco costosa e grazie al sito abbiamo costruito giorno per giorno la fisionomia della Campagna.
Ma soprattutto dopo l’esperienza di questa manifestazione, in cui abbiamo toccato con mano la totale censura dei media nei nostri confronti, mi rendo conto che l’autonomia ha un costo altissimo, ma è per noi condizione irrinunciabile per fare la politica che vogliamo.
Scontrarsi con tutto ciò fa tremare chi, come noi, ha sempre agito nel rispetto delle istituzioni, credendo nella partecipazione e contribuendo a fondare la democrazia di questo Paese fin dal 1944.
Lascia allibite scoprire che i cittadini per poter manifestare in una pubblica piazza - stando nella legalità come è giusto che sia - debbono avere soldi, tanti, a disposizione.
E anche indignate, perché tutti quelli che hanno pratica di questi eventi si sono dichiarati molto stupiti nel venire a conoscenza di queste disposizioni: viene da domandarsi se sono valide per tutti!
Se la legalità fosse stata questa burocrazia, negli anni ’70 non avremmo potuto fare tante manifestazioni e tanti cortei per la 194 e il diritto di non morire d’aborto, contro la violenza sessuale, per i consultori, per il delitto del Circeo e tanto altro!
Per quanto riguarda i media – e sempre perché presumiamo di essere in uno stato di diritto - ho scritto una lettera di denuncia al Garante della Comunicazione. Non possiamo dire di essere spaventate e neppure dobbiamo scoraggiarci: vuol dire che abbiamo toccato un nervo scoperto e in futuro sono altri i nervi che potremo toccare.
Appena avremo consegnato le firme, penso che faremo un’ assemblea per riflettere, per trarre un bilancio e per concludere questa esperienza in cui ci siamo ritrovate protagoniste in tutta Italia di una sorellanza inedita, coese, pronte a fare i conti con il momento storico che stiamo attraversando.
Non mi sembrerebbe opportuno e politicamente fruttuoso che questa campagna si trasformasse in un ennesimo falso movimento.
50E50 è uno dei terreni su cui abbiamo trovato un’intesa, ma ce ne sono altri su cui intervenire per modificare la realtà.
Per parte nostra noi dell’Udi abbiamo già cominciato a farlo: su una questione che riguarda, per esempio, le più giovani, abbiamo con il convegno Generare oggi tra precarietà e futuro predisposto una piattaforma politica, ma tanto ancora resta da fare. Siamo già intervenute sulla violenza con esposti al Procuratore generale della Repubblica, con iniziative, presidi, e, anche qui, sul linguaggio: chiamando la violenza sessuata e femminicidio la morte violenta di donne in seguito a maltrattamenti e stupri, si è modificata per tutti la percezione che si ha di tali delitti sottraendoli al generico e all’indistinto.
E’ evidente che le parole sono spie significative per rintracciare la nostra alterità.
E per smascherare la consuetudine delle parole e delle frasi fatte che ci definiscono secondo un modello e un disegno maschile.
Se io dico: il mestiere più antico del mondo, tutti – proprio tutti - pensiamo alla prostituzione. E ci dimentichiamo che fin dall’antichità l’origine simbolica della prostituzione sta negli stupri, nella prostituzione sacra, nell’ossessione degli uomini per le Amazzoni, nel ratto delle Sabine, negli stupri etnici, sia in Europa che in Africa che ovunque, e mi fermo qui.
Ma quel mestiere è scolpito nella carne delle donne e nel giudizio degli uomini, tanto da occultare che prima della prostituzione vengono gli stupri, gli abusi e le violenze sulle donne che si vuole che si prostituiscano : il fenomeno della tratta lo svela in tutta la sua brutalità. Una volta ridotte a merce quelle donne vengono messe sul mercato dove uomini potranno godere dell’umiliazione di un essere umano addomesticato con la violenza. Appunto una violenza sessuata.
E in cambio daranno del denaro a quella donna che lo consegnerà a quello che l’ha ridotta in schiavitù. Uno scambio di favori!
Le prostitute sono poi un monito per tutte: sono le “altre” che avremmo potuto essere, ma se le donne cominceranno – se cominceremo noi per prime - a pensare e poi a dire a voce alta che il mestiere più antico è quello del violentatore, ciascun genere saprà in che cosa si deve rispecchiare.
C’è poi un altro luogo comune: il rispetto delle culture. Chiamiamo cultura tutte quelle regole su cui ogni patriarcato “mette radici” e che costringono il corpo delle donne e i loro comportamenti dentro un modello.
Modello che cambia a seconda dei luoghi e delle latitudini, ma che ha come denominatore comune il controllo sulle donne perché non possano essere libere di sé.
Non posso concepire come accettabile per altre donne quello che non è accettabile per me, né posso avere la presunzione di essere io quella che dialoga con una civiltà che non dialoga con le sue donne, non voglio essere l’interlocutrice di nessun fallo.
Parlo con le donne, mi confronto con loro e se ci sono quelle che vogliono velarsi mi dovranno convincere che sono libere di farlo quanto di non farlo. Fino a quel momento io non sarò complice di un patriarcato e non fornirò alibi ad un altro in nome del rispetto delle culture.
Dovrebbe dirci qualcosa la sentenza del giudice tedesco che riduce la pena al massacratore della sua donna ! perché è un italiano, un sardo: cioè in nome dell’etnia, di una presunta cultura da tutelare. Dovrebbero saperlo anche gli uomini che su questa strada c’è sempre qualcuno che si ritiene più a nord!
La politica delle donne ha bisogno di chiarezza perciò ho voluto espormi, dirvi dove sono. L’UDI lo ha fatto anche in questi mesi e negli appuntamenti che ci siamo date, perché solo tenendoci testa, avendo ciascuna il coraggio di dire dove sta e cosa pensa possiamo avere l’ambizione di costruire una politica delle donne che ci veda insieme, ma non confuse, ognuna con il suo pezzo di storia, ma con la voglia di una appartenenza più grande.
Quella che ci ha portato qui oggi.

Come dice la nostra parola di oggi “IO VOGLIO ESSERCI, PER DECIDERE DEL FUTURO OVUNQUE”